Cibo astronauti: alimentazione personalizzata nello spazio

Cibo astronauti: alimentazione personalizzata nello spazio

Il cibo non è solo “qualcosa” da mangiare; è emozioni, identità, relazioni. Come replicare questa esperienza nello spazio per il benessere emotivo e psicologico degli astronauti? Attraverso tecnologie di produzione di cibo spaziale personalizzato. Deep Blue ci sta lavorando.

 

Alimentazione astronauti: innovazione e nuove tecnologie al simposio ASI

Recentemente l’Agenzia Spaziale Italiana (ASI) ha organizzato una due giorni di simposio per parlare del futuro del cibo nello spazio. Sul palco si sono avvicendati biologi, genetisti, chimici e ingegneri che hanno illustrato le ultime novità in diversi ambiti di ricerca legati al consumo e alla produzione di cibo per astronauti: super-food, tecnologie per la coltivazione in situ, sostenibilità e riduzione degli scarti. È un tema quanto mai attuale: nelle missioni di lunga durata come saranno quelle sulla Luna o su Marte non sarà possibile contare su rifornimenti regolari dalla Terra, al cibo bisognerà provvedere in altro modo.

Tra gli ospiti del meeting c’era anche Linda Napoletano, direttrice della divisione manufacturing di Deep Blue ed esperta di interazione uomo-macchina, invitata a presentare il talk “Il cibo come esperienza: sviluppo di tecnologie per la produzione personalizzata di cibo nello spazio”. Un approccio un po’ diverso alla discussione che potremmo riassumere così: il cibo non serve solo a nutrire il corpo, ma anche l’animo, le relazioni, i sensi. Il valore “esperienziale” del cibo è parte fondamentale del benessere degli astronauti, a maggior ragione quando trascorreranno anni lontano da casa.

 

Missioni e insediamenti spaziali, il problema del cibo degli astronauti

La NASA progetta di mandare i suoi astronauti su Marte nel 2030. L’Agenzia spaziale giapponese (JAXA) punta alla Luna, che conta di raggiungere nel 2040. Nel frattempo aumentano interesse e investimenti nel turismo spaziale: SpaceX, Blue Origin, Virgin Galactic vogliono portare nello spazio chiunque (o quasi, visto che il costo di un volo parte da 100.000 dollari). L’esplorazione spaziale è un’impresa eccitante il cui successo dipenderà principalmente dalla tecnologia: sarà sufficientemente evoluta e affidabile per far fronte alle sfide dello spazio? Non parliamo solo di razzi, shuttle e stazioni spaziali, ma anche dei sistemi che dovranno fornire sostentamento all’equipaggio durante i lunghi viaggi (6-8 mesi per raggiungere Marte, oltre 3 anni per Saturno) e negli insediamenti che si vorrebbero costruire sui pianeti ospiti.

Sostentamento uguale cibo, nelle sue diverse declinazioni. Da una parte è necessario capire cosa dar da mangiare agli astronauti per garantire il giusto mix di nutrienti, anche ricorrendo all’ingegneria genetica per “amplificare” alcune proprietà nutrizionali degli alimenti. Dall’altra è necessario avviare una “agricoltura spaziale”: individuare le specie più adatte a essere coltivate in condizioni estreme (microgravità, radiazioni, scarsità di acqua, ecc.) e utilizzando risorse locali; studiare come riutilizzare la biomassa di scarto (i cosiddetti cicli biorigenerativi) e ridurre al minimo i rifiuti.

La sostenibilità è fondamentale nello spazio, non solo per l’ovvia scarsità delle risorse. “Consumare cibo con un impatto relativamente basso sull’ecosistema è un fattore che, in un’epoca sempre più orientata ad atteggiamenti pro-sociali, può contribuire a creare emozioni positive nel momento in cui viene consumato”, dice Napoletano. “Si tratta di un aspetto da non sottovalutare anche nelle missioni spaziali, durante le quali gli astronauti tipicamente sperimentano il cosiddetto ‘overview effect’: una sensazione di fragilità del pianeta dal quale provengono che emerge quando lo si osserva dallo spazio. Riciclo e riutilizzo delle materie prime devono perciò entrare nella progettazione dell’esperienza culinaria nello spazio”.

Assieme al gusto. La NASA, nel suo The Deep Space Food Challenge, incoraggia i candidati a presentare “tecnologie o sistemi alimentari nuovi e rivoluzionari che richiedano input minimi e massimizzino la produzione alimentare sicura, nutriente e appetibile per missioni spaziali di lunga durata”. Come dire: il cibo non deve essere solo nutriente ma anche buono perché deve far felice chi lo mangia.

E restando in tema di benessere, non si può ignorare che il cibo è anche un’esperienza. “Preparare un pasto e mangiare sono esperienze multisensoriali in grado di influenzare positivamente l’umore di una persona così come un elemento identitario e di socialità”, sottolinea Napoletano. Non lo diciamo noi, ma chi nello spazio è di casa. “Ogni tanto, si preparavano pasti speciali utilizzando ingredienti provenienti dai rispettivi paesi d’origine, creando così un momento di condivisione culturale e conforto emotivo in un ambiente così distante dalla Terra”. Non se ne parla ancora abbastanza, ma una sfida nella sfida è riprodurre in orbita il valore esperienziale di cibo, con tutte le difficoltà legate alle caratteristiche “ostili” dell’ambiente in cui ci si trova.

 

Cosa mangiano gli astronauti: microalghe, carne coltivata e pillole di vino

Con il progredire della ricerca, il menù spaziale degli astronauti comincia a definirsi. Una cosa è certa, mangeranno microalghe: ricchissime di proteine, contengono pure antiossidanti che aiutano a “tenere botta” alle radiazioni ionizzanti. Se non bastasse resistono a condizioni estreme e hanno un elevato tasso fotosintetico, cioè producono tanta biomassa. In poco spazio e, giura chi ci sta lavorando, si possono coltivare su Marte usando la regolite, cioè il suolo marziano, l’urina degli astronauti e l’anidride carbonica (l’esperimento è stato condotto sulla specie Chlorella vulgaris e c’è già un brevetto depositato).

Nel simposio ASI si è parlato anche del pomodoro nano “San Marziano”, arricchito di antiossidanti e resistente alle radiazioni spaziali, e della lenticchia d’acqua (Wolffia globosa), la pianta più piccola e a crescita veloce del mondo (raddoppia la biomassa in poco più di 24 ore) che è pure iperproteica, resistente alle radiazioni e senza scarti di produzione. E ancora di farina d’insetti e carne coltivata, se proprio non si vuol far mancare agli astronauti la “ciccia”.

Infine, cosa c’è di meglio di un sorso di birra o un calice di vino per completare il pasto? C’è chi ha provato a far crescere il lievito di birra (Saccharomyces cerevisiae) in condizioni di microgravità: c’è riuscito, scoprendo persino che la bassa gravità aumenta la velocità di propagazione e fermentazione del lievito (certo, bisognerà capire dove prendere il mosto). E inoltre, anche se non ci saranno brindisi, mandar giù “pillole di vino” che sanno davvero di vino darà l’impressione di sorseggiare un Cabernet. Poi, una volta messa a punto la tecnica (biofilm in cui incapsulare i liquidi) si potranno fare pillole di caffè, tè… spritz. Che la festa abbia inizio. Party a parte, la soluzione è vantaggiosa sotto vari aspetti: stoccaggio, trasporto, zero contenitori da smaltire.

 

L’esperienza del cibo spaziale, a ognuno il suo

Arthur aveva trovato una macchina nutrimatica che gli aveva servito in una tazzina di plastica un liquido che, anche se non proprio del tutto, era quasi completamente diverso dal tè. Il funzionamento della nutrimatica era interessante. Quando veniva premuto il bottone Bevande, la macchina esaminava sull’istante, ma molto dettagliatamente, la potenziale gamma dei gusti del soggetto: faceva un’analisi spettroscopica del metabolismo di questo, e poi spediva minuscoli segnali sperimentali attraverso il sistema nervoso fino ai centri del gusto del cervello, per vedere che cosa aveva maggiori probabilità di essere   ben digerito e  apprezzato. Tuttavia, era impossibile capire il perché di tutte queste operazioni, perché la macchina serviva immancabilmente in tutti i casi una tazza di liquido che, anche se non proprio del tutto, era quasi completamente diverso dal tè”. (Guida Galattica per Autostoppisti, Douglas Adams, 1979).

Douglas Adams ci aveva visto lungo. Non abbiamo macchine nutrimatiche – non ancora – ma di fondo l’idea è proprio questa: replicare nello spazio esperienze culinarie personalizzate. Il cibo, lo abbiamo detto, è un modo per prendersi cura del benessere psicofisico degli astronauti. “Deep Blue ha una consolidata esperienza nel training degli astronauti – spiega Napoletano – nei nostri corsi per l’Agenzia Spaziale Europea ci preoccupiamo di ‘allenare’ le capacità di lavorare in team, di gestire stress e frustrazione. Con l’obiettivo di favorire la riuscita di una missione ma anche di far stare meglio gli astronauti. Il cibo può contribuire alla ‘causa’, in che modo ci stiamo ragionando”.

 

La tecnologia additiva: il cibo per astronauti come prodotto digitale

Nello sforzo di tradurre la “formula” dell’esperienza emozionale e sociale del cibo in realtà, possono essere d’aiuto le idee provenienti da altre discipline. “In alcuni progetti di ricerca condotti a livello Europeo, per esempio STARHAUS di cui siamo partner, si stanno già sperimentando macchine di produzione avanzate per beni di consumo personalizzati – dice Napoletano – nulla vieta di ‘riadattare’ queste macchine, che sfruttano principi e approcci tipici della manifattura additiva, per produrre cibo personalizzato nello spazio a partire da componenti di base”.

Una macchina-chef a cui affidare le nostre ‘ricette’: sceglie e dosa i singoli ingredienti secondo le istruzioni ricevute; li assembla e mixa per servire i pasti in recipienti compostabili. “Questa soluzione, opportunamente adattata alle condizioni di produzione di cibo nello spazio, offre la scalabilità necessaria a soddisfare le esigenze di qualsiasi missione spaziale – aggiunge l’esperta – si adatta alla produzione di alimenti diversi, in base a necessità e gusti degli astronauti, e potrebbe garantire efficienza nell’uso delle risorse riducendo i costi e l’impatto ambientale delle missioni spaziali”.

Progettare queste macchine è una sfida tecnologicamente complessa, anche dal punto di vista dell’interfaccia utente, che deve essere flessibile e immediata nell’utilizzo. “Le difficoltà di progettazione dipendono dal fatto che la macchina dovrebbe gestire l’intero ciclo di vita del cibo: dall’introduzione dei prodotti semi-lavorati alla produzione del “piatto” finale, ottimizzando al contempo la gestione degli scarti – ammette Napoletano – inoltre dovrebbe poter essere controllata dalla Terra, specie se si vuole variare la dieta dei membri dell’equipaggio della missione senza dover intervenire sulla macchina stessa”.

 

Gli Human Digital Twins per il cibo nello spazio

Così come un prodotto viene “digitalizzato” dalla manifattura additiva, anche l’esperienza umana può diventare digitale. Grazie all’utilizzo di tecnologie di realtà virtuale multi-sensoriale, l’impatto emotivo e psicologico del cibo sulla mente e sul benessere umano può essere studiato, compreso e modellizzato ricreando un gemello digitale o Human Digital Twins, cioè una copia virtuale che riproduce i nostri comportamenti.

“La possibilità di generare e utilizzare Human Digital Twins per sviluppare soluzioni innovative per la produzione e il consumo di cibo nello spazio per ora è solo una suggestione – dice Napoletano – ma grazie a questi modelli digitali potremo studiare l’esperienza in maniera più ‘solida’ e replicabile, per meglio comprenderla ma anche per fare previsioni su come sue caratteristiche legate al cibo (qualità, possibilità di condivisione o preparazione) influiranno sulla componente emotiva del mangiare, così da perfezionare e customizzare le macchine a cui affideremo la ‘costruzione’ dell’esperienza stessa”.

Confidando che siano meglio della macchina nutrimatica di Adams, che alla fine serviva a tutti una tazza di un liquido che “era quasi completamente diverso dal tè”.

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